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Sulle Pareti di Roccia
Le pareti di roccia dei Monti Lepini si ergono dal nulla delle nebbie, che spesso sovrastano le pianure, quasi come fantasmi scintillanti al sole e in contrasto con il verde dei boschi o dei pascoli sottostanti. Da lontano, l’ambiente rupestre può apparire spoglio o privo di vita, ma osservando con il binocolo le rocce verticali più compatte e austere, si scoprirà una flora di incomparabile bellezza che riesce a sopravvivere tra le più piccole fessure, cenge e nicchie, in condizioni di vita estreme e per questo ancor più affascinanti.
Tra i fiori dai vividi colori che punteggiano qui e là le rocce o i ripidi ghiaioni, volano numerosi gli insetti: alcune farfalle se ne stanno spesso immobili al sole, come i satiridi Neohipparchia statilinus e Chazara briseis, ‘chiuse’ e invisibili nella colorazione scura delle ali posteriori, pronte a involarsi se disturbate. Mimetico con il terreno è anche Asida bayardi bayardi, un coleottero tenebrionide endemico dell’Italia centro-meridionale, tipico di ambienti aridi pietrosi, segnalato nel Monte Semprevisa.
Per gli uccelli rapaci la sicurezza e la tranquillità dei luoghi, come la presenza di cavità e posatoi sulle pareti verticali, sono condizioni irrinunciabili per la scelta di un territorio dove nidificare. In questi ambienti i forti richiami echeggianti che coprono tutti gli altri suoni, e la figura aerodinamica, compatta e massiccia, con le ali a punta, non lasciano dubbi all’escursionista: si tratta di un falcone, ma quale? E’ un falco pellegrino (Falco peregrinus) o un lanario?
I due rapaci sono molto simili e senza condizioni di luce ideale e un buon cannocchiale, la loro identificazione risulta difficoltosa anche per un esperto. E’ pur vero che le probabilità di incontro sono tutte a favore del falco pellegrino, presente con una dozzina di coppie nidificanti, mentre di lanario, sui Monti Lepini, ce n’è soltanto una. Capaci di abili manovre aeree, precipitano sulle prede a oltre 300 km orari o terminano la discesa posandosi delicatamente su un roccione a strapiombo. Da lassù riescono a scorgere gli uccelli che incautamente volano isolati e a quote troppo elevate, oppure in modo incerto perché feriti o malati. In primavera, le giornate di questi falconi sono particolarmente impegnative. Le femmine covano per quasi un mese e coprono i pulcini dopo la schiusa delle uova.
Per tre settimane li imbeccano e li sorvegliano mentre i compagni più piccoli e agili, sono costantemente impegnati nella caccia, dovendo sfamare se stessi e tutta la famiglia. Solo nella parte finale dell’allevamento anche la femmina può allontanarsi per cacciare.
Il lanario è tornato a nidificare sui Monti Lepini dopo che nei primi anni Ottanta l’unica coppia presente si allontanò in seguito al depredamento sistematico delle nidiate da parte di bracconieri. Un ritorno molto gradito: nel Lazio questa specie è più rara e localizzata della stessa aquila reale e le coppie che occupano stabilmente un territorio si contano sulle dita di una mano. Per l’aquila reale, incontrastata dominatrice dei ‘santuari’ rocciosi delle montagne sono ancora troppi i fattori che nell’Appennino centrale ne limitano l’espansione e impediscono il suo ritorno in territori ‘marginali’ come quelli antiappenninici.
Sui Monti Lepini restano i grandi vecchi nidi, una testimonianza e un monito a preservare l’integrità ambientale, sperando che in un futuro non lontano possano essere riutilizzati da una nuova coppia. Nel frattempo, profittando della ‘regale’ assenza, una coppia di falchi pellegrini nidifica saltuariamente nel più grande dei due enormi ‘cesti’.
Nelle vicinanze non è infrequente osservare sagome in volo di color nero lucido, accompagnate da un profondo e roco richiamo: si tratta del corvo imperiale (Corvus corax), il più grande dei corvidi europei, con un’apertura alare che raggiunge i 130 centimetri. Come un rapace ama roteare nel cielo sfruttando le correnti ascensionali. Una sola coppia nidificante sui Monti Lepini è ciò che resta di una popolazione che in passato era ben più numerosa.
Altre specie di uccelli frequentano l’habitat rupestre dei Monti Lepini, anche se per brevi periodi. Una di queste è l’elegante picchio muraiolo (Tichodroma muraria), passeriforme tipico delle alte quote, che nei mesi invernali più freddi compie movimenti migratori verso il basso e dalle vette dell’Appennino visita anche le falesie del Lazio meridionale o quelle delle Isole Pontine.
L’osservazione del grifone (Gyps fulvus), un avvoltoio che può raggiungere i 280 cm di apertura alare, potrebbe quasi impensierire qualche escursionista meno avveduto: la visione di 15 grifoni in volo sui Monti Lepini, avvenuta nel marzo 1998, è stato un evento che potrebbe ripetersi, poiché le colonie di grifoni dell’Appennino, frutto di reintroduzioni gestite dal Corpo Forestale dello Stato, sono ormai consolidate e in crescita.
Le reintroduzioni sono state avviate nel 1993 sull’Appennino abruzzese, dove dal XVIII secolo la specie era scomparsa, con l’obiettivo di ricostituire un anello della catena alimentare. Il grifone è infatti uno degli “spazzini” della natura: ricerca le parti molli e le interiora in putrefazione di animali morti, eliminando anche quelle di esemplari malati, fonti di potenziali infezioni.
Tale peculiare alimentazione è condivisa da altre specie di uccelli rupicoli: una di queste, il capovaccaio o avvoltoio degli Egizi, nidificava sui Lepini fino ai primi anni Settanta del Novecento. Perlustrava in volo i vasti territori aperti frequentanti da animali domestici allo stato brado, alla ricerca di carogne, spesso accompagnato “a tavola” dai corvi imperiali.
La parete di roccia dove nidificava il capovaccaio, quella su cui sorge l’abitato di Norma, era occupata anche dal grillaio (Falco naumanni), falchetto del tutto simile al gheppio (Falco tinnunculus) e di poco più piccolo. In primavera, da Norma, e in particolare dalle finestre di alcune case costruite proprio sulla rupe a strapiombo, si poteva assistere “in diretta” ai voli dei grillai e capovaccai e, sul finire dell’estate, alla loro partenza verso le aree di svernamento in Africa e in Asia meridionale.
Oggi sulla stessa rupe si osserva il gheppio, falchetto ubiquitario e facilmente riconoscibile per una singolare configurazione aerea che assume durante la ricerca delle prede. Il piccolo rapace, infatti, fa ricorso a un volo noto come “spirito santo”: è in grado di librarsi, immobile nel cielo, come un punto fisso, osservando il terreno sottostante fino a quando, localizzata la preda, tenta l’attacco con discese verticali più o meno rapide, non sempre coronate da successo.
Non è raro, di notte, ascoltare un richiamo “ueggiante” inusuale, quasi scioccante per via dell’eco prodotto fra le “cattedrali” di roccia: è quello dell’allocco (Strix aluco), rapace notturno tipicamente forestale ma che in mancanza di idonee cavità nei tronchi di alberi vetusti, a volte utilizza quelle di pareti rocciose. Nascosto all’interno di un antro fino al crepuscolo, osserva di tanto in tanto altri uccelli che si posano sulle cengie vicine.
Uno di essi è il passero solitario (Monticola solitarius) che abita la stessa parete rocciosa e, a differenza dell’allocco, predilige proprio gli ambienti rupestri in aree a clima caldo e secco, dove tuttavia vive anche tra ruderi, casolari abbandonati, cave di pietra, antichi palazzi, torri e castelli.
Nel periodo riproduttivo, il canto forte e melodioso del maschio, emesso dall’alto delle rocce o dalle merlature di un castello, riesce a evocare emozioni pari a quelle che suscitarono i noti sonetti al Leopardi. Ai piedi delle pareti di roccia si formano sovente ripidi ghiaioni alimentati dal lento disgregarsi delle rocce e a volte anche dal distacco di pesanti blocchi calcarei. Questo mutevole e aspro paesaggio, punteggiato da piante pioniere con fiori dai vivaci colori e da rari arbusti, è ricco di anfratti e ospita diversi mustelidi come la faina o la donnola (Mustela nivalis).
Altri mammiferi di taglia maggiore possono trovarvi rifugi sicuri: le cavità delle rocce in aree boscate e isolate possono nascondere tane di istrice (Hystrix cristata), volpe, gatto selvatico (Felis silvestris) e perfino del lupo.
Scrutando con il binocolo tra i massi di aree rocciose si può sorprendere una volpe che sonnecchia accovacciata al sole, come nei pressi della vetta del Semprevisa, o un tasso che si allontana saltellando tra le rocce di Valle Naforte, e un istrice all’ingresso di una cavità rocciosa del Monte Malaina! Altri mammiferi di taglia maggiore possono trovarvi rifugi sicuri: le cavità delle rocce in aree boscate e isolate possono nascondere tane di istrice (Hystrix cristata), volpe, gatto selvatico (Felis silvestris) e perfino del lupo.
Sotto il calore del sole primaverile, percorrendo i sentieri sui versanti esposti a occidente, si resta inebriati dall’aroma intenso e gradevole dei cespugli fioriti che impregna l’aria e dal turbinio di insetti che vi ronzano eccitati. Sulle pendici calde delle colline si può ammirare il volo celere e apparentemente disordinato della Melanargia arge, una bella farfalla bianca e nera, endemica dell’Italia peninsulare e protetta dalla Direttiva Habitat della Comunità Europea. Sui Lepini è molto localizzata: abita soprattutto i versanti meridionali fino a circa 1.200 m di quota.
Non si posa frequentemente, forse per non rischiare di essere preda delle lucertole, a caccia sulle rocce o tra i bassi cespugli. Questi sauri spesso sostano immobili in termoregolazione, non di rado ad occhi chiusi, forse inebriati dal calore del sole; ma solo per pochi istanti perché fra pietre e fiori profumati può nascondersi anche per loro un’insidia mortale: il colubro liscio (Coronella austriaca).
Questo serpente, infatti, preda quasi esclusivamente sauri e alle quote medio-alte la lucertola muraiola (Podarcis muralis) è quello più comune. Nelle località rocciose poste ad altitudini inferiori è invece il colubro di Riccioli (Coronella girondica), un’altra piccola e rara specie, a cacciare in modo particolare lucertole campestri (Podarcis sicula).
Ambedue i serpenti sono inoffensivi per l’uomo e il colubro di Riccioli è considerato tra quelli più miti: morde infatti difficilmente anche se trattato bruscamente. Il biacco, o colubro verde e giallo (Hierophis viridiflavus), sui Lepini è invece il serpente più comune e diffuso sia in senso spaziale che altitudinale, spingendosi sino a quasi 1.400 m di quota. Può raggiungere non di rado i 150 cm di lunghezza e per la sua mole e aggressività è temuto da serpenti adulti di taglia inferiore e dai giovani di altra specie. Nelle sue fulminee apparizioni terrorizza gitanti o pastori per poi allontanarsi sempre a gran velocità dileguandosi in pochi secondi, certamente impaurito quanto gli occasionali osservatori. Alcune specie di uccelli che abitano i pendii rocciosi accidentati e le garighe su suolo calcareo, hanno subito un sensibile calo numerico negli ultimi venti anni, per queste sono considerate a rischio e incluse nelle tristemente note “liste rosse”. In primavera, tra le rocce spiccano gli smaglianti colori blu, arancione e bianco del codirossone (Monticola saxatilis), una delle specie più belle dell’avifauna italiana. Tra le pietraie e le rocce dei versanti caldi e aridi basso-collinari, non passa inosservato neppure il maschio della monachella (Oenanthe hispanica), dalla luccicante livrea bianco-nera. Gli stessi ambienti, anche se estremamente aridi, vedono i maschi del calandro (Anthus campestris) esibirsi in voli nuziali, con ascese ondulate e caratteristiche cadute quasi verticali ad ali semichiuse.
Durante il giorno è invece assolutamente improbabile l’osservazione del succiacapre (Caprimulgus europaeus), un singolare ed enigmatico uccello, a metà strada fra un rapace notturno e un rondone, è attivo solo di notte quando caccia insetti alati. Il maschio si fa sentire al crepuscolo e di notte con una sorta di trillo, di sorda vibrazione, che ogni individuo può variare d’intensità, durata e tono.
La tottavilla, a differenza di altre specie della stessa famiglia (Alaudidi), gradisce nel suo territorio anche la presenza di alberelli e arbusti radi dove posarsi. Il suo canto è composto da una serie flautata di liquidi “lu…lu…lu” a cui, in aggiunta ai suoi costumi più arborei, deve il suo nome scientifico: Lullula arborea. Sino a non molti anni fa, negli stessi habitat, il naturalista, l’attento escursionista o il cacciatore, si fermavano lungo i sentieri per localizzare i richiami della coturnice o ammirare all’improvviso un’intera brigata che, dopo un rumoroso involo, si gettava nel vuoto di un canalone o di una valle boscosa; oggi mancano purtroppo segnalazioni sulla sua presenza.
Negli stessi ambienti montani fa ritorno in primavera il codirosso spazzacamino (Phoenicurus ochruros), un passeriforme che trascorre la stagione fredda in ambienti posti a quote inferiori, compresi i centri abitati di pianura e dei Lepini. Un altro passeriforme, lo zigolo muciatto (Emberiza cia), non si avvista facilmente ma si riconosce per il suo penetrante richiamo monosillabico e per la bella livrea del maschio, con strie nere sul capo bianco-grigio.
Testi tratti da:
“Lepini, Anima selvaggia del Lazio”
Edizioni Belvedere. ISBN: 88-89504-03-X