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Le fitte leccete
Le fitte leccete che ricoprono ripide vallate a volte quasi inaccessibili per la presenza di rupi, o quelle ampie e poco acclivi dei Lepini, sotto le chiome compatte offrono un ambiente inaspettatamente fresco e buio. Volpi, faine, gatti selvatici e perfino lupi, trovano qui rifugi e giacigli per trascorrere le ore diurne, ma anche tane dove partorire e allevare la prole.
Dove il tronco di un leccio vetusto affonda le radici nel calcare, un anfratto tra la roccia e la terra scura fresca di scavo, lascia intuire la presenza di una tana; ma chi l’avrà scavata?
Un rapido controllo nelle vicinanze ed ecco la soluzione: un aculeo a bande bianche e nere, rigido e acuminato. E’ un segno inequivocabile della presenza dell’istrice, la “spinosa”, anche se la sua tana, formata da diversi cunicoli, camere e uscite, è a volte condivisa con il tasso e la volpe. Molti ritengono che questo roditore, il più grande in Italia, sia in grado di lanciare gli aculei; in realtà possono soltanto staccarsi facilmente, soprattutto nel periodo della muta.
La loro efficace protezione fa si che (a parte l’uomo) l’istrice abbia pochissimi predatori, tra i quali l’aquila reale, come segnalato in passato anche sui Monti Lepini. Protetto da trattati internazionali, l’istrice è tra i pochi mammiferi in lenta ma costante espansione in Italia. Anche nei Monti Lepini è bene distribuito fino alle medie quote, più raro oltre i 900 m e con record altitudinale attestato a 1.360 m, sul Monte Malaina.
Due mammiferi carnivori, la faina, più grande e dalla folta e morbida pelliccia bruno-nerastra, e la donnola, molto più piccola e dalla pelliccia bruno-rossastra, hanno un’ampia valenza ecologica: possono vivere sia in aree boschive, sia aperte e rocciose, dai pascoli montani alle pianure, in ambienti selvaggi o antropizzati. Di abitudini solitarie, trovano rifugio anche nelle cavità di lecci vetusti.
In vallate solitarie e impervie, immerse nel verde cupo della lecceta si nasconde anche il misterioso “gatto dei boschi”; una terrazza rocciosa con soffici ciuffetti d’erba secca su cui riposare, uno spuntone di roccia utilizzato come osservatorio o un leccio abbarbicato al calcare, costituiscono il piccolo feudo dove il gatto selvatico trascorre le ore diurne. I segni della sua presenza sono rari e poche persone possono raccontare di averlo incontrato.
Eppure non mancano per i Monti Lepini le segnalazioni di abbattimenti illegali negli anni ’90. La dieta del gatto selvatico, a differenza del conspecifico domestico (Felis catus), è costituita solo da proteine animali, soprattutto da piccoli roditori (topi selvatici e arvicole). Se il nostro gatto domestico ha fama di cacciatore abilissimo, il gatto selvatico è un vero e proprio sterminatore, una macchina da preda più agile e dai sensi ancora più perfezionati.
I suoi territori di caccia includono aree aperte, radure e margini del bosco dove le arvicole e i topi selvatici sono più numerosi. Non disdegna comunque prede più “impegnative” come lepri e uccelli: il monotono richiamo e le vistose parate nuziali del maschio della tortora selvatica (Streptopelia turtur) possono attirare l’attenzione di una premurosa femmina di gatto selvatico che sta allevando la prole.
Nella penombra della lecceta, ma soprattuto ai suoi margini, adulti o nidiacei di ghiandaia (Garrulus Glandarius), scricciolo (Troglodytes troglodytes), capinera o merlo (Turdus merula), sono prede potenziali per il “gatto dei boschi”. In estate la lecceta ospita altre specie di uccelli nidificanti, ma non esclusive di questo ambiente, come alcune cince.
L’usignolo (Luscinia megarhynchos), il pettirosso (Erithacus rubecula) o il fiorrancino (Regulus ignicapillus). Quest’ultimo, assieme alla ghiandaia, è tra quelle più frequenti: con i suoi cinque grammi di peso, il fiorrancino è quasi invisibile! Si muove agilmente tra il fogliame, all’estremità dei rametti periferici o si sposta con brevi voli da un ramo all’altro alla continua ricerca di piccoli insetti e loro larve. Alla scarsa visibilità di questo minuto “fantasma” è però associato un canto ripetuto di frequente, con note acute accelerate, che consentono di rilevarne facilmente la presenza.
Anche il “corvide dei boschi”, la ghiandaia o “pica”, si ascolta senza difficoltà: il suo vociare con versi aspri e forti risuona in tutti i boschi dei Monti Lepini, ma con maggiore frequenza nei querceti a foglie caduche e sempreverdi, sia di leccio, sia di sughera. Quest’ultima specie arborea presente nel settore meridionale dei Monti Lepini, soprattutto nell’area di Monte Saiano e Fossanova, dove le sugherete, inframmezzate da aree pascolate da mandrie di bufali, creano paesaggi mediterranei di grande fascino.
Qui è frequente l’incontro con il gruccione (Merops apiaster), uno degli uccelli più belli dell’avifauna italiana: elegante nelle forme, con una incredibile brillantezza del piumaggio e varietà nelle colorazioni. Sui Monti Lepini la specie nidifica soprattutto in quest’area meridionale, dove è presente con colonie numerose. Le pareti e le scarpate sabbiose compatte consentono lo scavo di lunghissime gallerie (fino a tre metri) al termine delle quali il gruccione ricava un’accogliente camera di deposizione.
Qui sono allevati i giovani e solo quando sono prossimi all’involo si affacciano curiosi dai fori di entrata delle gallerie in attesa dell’imbeccata; un pasto sui generis, a base soprattutto di imenotteri sociali quali di api (Apis mellifera), vespe (Polistes spp., Vespula spp.) e calabroni (Vespa crabro), che i genitori catturano in volo con destrezza.
Questi temuti imenotteri possono anche pungerli ma i gruccioni sono insensibili al loro veleno. L’abbondanza di tali insetti è determinante anche per un altro uccello: il falco pecchiaiolo (Pernis apivorus). La sua principale fonte alimentare è infatti costituita da larve di vespe e calabroni estratte dai favi con il becco. La ricerca dei loro nidi avviene anche sul terreno, dove sono messi allo scoperto scavando con le zampe, mentre al nido i piccoli attendono di essere imbeccati con le nutrienti larve.
Sui Monti Lepini la specie si osserva soltanto da maggio a settembre perché sverna in Africa equatoriale e poche coppie nidificano in boschi sempreverdi e di caducifoglie. Sui boschi di sughera e sulle aree aperte limitrofe si libra con un volo a “spirito santo” come quello del gheppio, un altro rapace spettacolare per le dimensioni e le peculiari abitudini alimentari: è il biancone (Circaetus gallicus), la grande aquila cacciatrice di serpenti. Il maestoso rapace è stato osservato a caccia in tali ambienti del settore meridionale dei Lepini dove sono abbondanti le sue prede.
Nei grandi spazi luminosi come in quelli più angusti e bui delle leccete, gli alberi più vecchi e deperenti offrono rifugio e nutrimento a innumerevoli organismi saproxilici (funghi, molluschi, artropodi, uccelli, ecc.), vale a dire quegli organismi che sono legati almeno durante una parte della loro vita al legno morto. Questo, malgrado l’apparente contraddizione, è fonte di vita per vaste schiere di piccoli animali, spesso misconosciute.
Miopi politiche di gestione hanno ridotto drasticamente la quantità di legno morto presente nelle foreste europee, causando la rarefazione di moltissime specie di saproxilici, fondamentali negli equilibri naturali, molti dei quali sono ora purtroppo inclusi nelle liste rosse di diversi nazioni.
Sollevando una corteccia o cercando tra il legno morto si resterà stupiti dalla notevole quantità e varietà di piccoli animali che cui vivono. Tra questi, un nero coleottero tenebrionide, Iphtiminus italicus, legato ai vecchi alberi, che a causa della distruzione ambientale è sempre più localizzato e raro.
Più frequente è il cerambice della quercia (Cerambyx cerdo), uno dei più grandi coleotteri italiani (5 cm di lunghezza, antenne escluse), legato soprattutto alle leccete mature. Attivo di regola nelle ore notturne, lo scorpione (Euscorpius flavicaudis) di giorno rimane nascosto sotto le cortecce e le pietre. Questo predatore del suolo è inconfondibile per la sua “coda” terminante con un bulbo velenifero e un aculeo ricurvo.
Gli scorpioni sono fra gli artropodi terrestri più antichi e forme simili abitavano la terra centinaia di milioni di anni fa. Di aspetto poco rassicurante, sull’uomo incute timore, se non terrore, tuttavia, la puntura delle specie nostrane non è più pericolosa di quella di un’ape!
Nelle radure e lungo i margini dei boschi di querce sempreverdi con un po’ di fortuna si può incontrare una farfalla brunastra, la Libythea celtis, il cui bruco si sviluppa sul bagolaro (Celtis australis). Si tratta di una specie molto interessante poiché è sporadica e localizzata in tutto il suo areale ed è l’unica rappresentante in Europa della famiglia dei libiteidi.
Ben più frequenti sui bordi delle leccete e nei luoghi caldi in genere, soprattutto sui fiori delle scabiose, sono le zigene (Zygaena spp.), piccole farfalle i cui vivaci e vistosi colori “ricordano” ai predatori il sapore sgradevole dovuto alla presenza nei loro tessuti di sostanze tossiche protettive.
Testi tratti da:
“Lepini, Anima selvaggia del Lazio”
Edizioni Belvedere. ISBN: 88-89504-03-X