memorie-archeologiche

Memorie archeologiche fra tardo Settecento e Ottocento:
cave, cavatori e scavi a Privernum

Margherita Cancellieri

Una lunga e fertile stagione di scavi a Privernum inizia, ufficialmente, sul finire del Settecento. Fu un esordio particolarmente brillante ‘passato alla storia’ per la scoperta di una statua colossale di Tiberio, un ‘bel busto’ di Claudio, un frammento di altra statua colossale di imperatore (meno attraente e meno citato) e numerose iscrizioni; la paternità dello scavo veniva rivendicata a Giuseppe Petrini «giovane erudito nell’antiquaria, e in altri studi, e pratico sopra tutto nell’arte di scavare»[1], che avrebbe svolto la sua attività nella cittadina lepina in un anno che, in letteratura, oscilla fra il 1795 e il 1797. Una tradizione, questa, che per tutto l’Ottocento, e fino a oggi, si è trasformata in un leitmotiv che ha accompagnato ogni possibile riferimento a Privernum richiamato, con una certa confusione di date, attribuzioni e provenienze, da quanti, a vario titolo, si sono interessati del suo patrimonio archeologico, artistico ed epigrafico. Per la tradizione erudita, poi, Privernum, che fino allora era stata una nobile ‘metropoli dei Volsci’ incensata dalla ‘Regina Camilla’ di virgiliana memoria (Verg., Aen. VII, 803-807; XI, 531-831), poteva essere ora calata in una realtà romana e ‘sfoggiare’ imperatori illustri e, all’occasione, un palazzo di Tiberio. Complice di questa tradizione deve essere stata l’efficace iscrizione posta sul sedile (moderno) della statua di Tiberio, entrata già dal 1802 nei Musei Vaticani, che recita «Ex ruderibus Priverni / Ioseph Petrinus / anno MDCCXCVI», e, insieme, l’unica e rara notizia che fece circolare qualche ragguaglio sugli scavi, data alle stampe nel 1802 e con tutta l’autorevolezza di Carlo Fea, allora Commissario pontificio delle Antichità e Cave di Roma:

«Nel 1795 sotto Piperno nuovo nella pianura, dove il volgo suppone fosse l’antico Piperno, il sig. Petrini trovò una statua di Tiberio sedente, di 12 palmi, bellissima per il suo tempo nel panneggiamento, e nel nudo. Stava in una nicchia di un portico laterale di un palazzo. La Santità di N. Signore ne ha fatto l’acquisto il dì 13 giugno passato per il Museo Pio-Clementino con 5. mila zecchini. Unite a questa statua ne furono trovate altre, e dei busti, e rocchi di colonne di verde antico del diametro di due palmi, e un quarto, di sorprendente bellezza»[2].

La storia degli scavi del secondo Settecento che, a tutt’oggi, deve alla monumentale raccolta di dati di Rodolfo Lanciani e agli studi di Carlo Pietrangeli saldi punti di riferimento[3], ha conosciuto in tempi recenti nuove aperture grazie anche alle appassionate e pazienti ricerche di Ilaria Bignamini, rivolte soprattutto al mondo degli archeologi-antiquaricollezionisti britannici[4], che hanno fatto riemergere tutta una documentazione sommersa e sconosciuta contribuendo a una storia dell’antiquaria svelata da inaspettati filoni di indagine. Nell’ambito di queste novità si inserisce anche la vulgata privernate che, potendo contare ora su preziosi inediti, si libera dal suo alone di mistero e si inserisce a pieno titolo in «quell’atmosfera vivace, frenetica e quanto mai eccitante di un numero sbalorditivo di scavi e scoperte che andarono crescendo nella seconda metà del Settecento in risposta alla forte domanda di marmi antichi da parte dei collezionisti stranieri (inglesi anzitutto) e alle necessità del nuovo Museo Pio-Clementino …»[5]. Prendendo le mosse da alcune puntualizzazioni della Bignamini[6] e sommando e intrecciando tutta una serie di dati, inediti, poco conosciuti o poco utilizzati, è possibile ora riannodare in una trama più concreta, che qui non può che essere ridotta all’essenziale, quelle che sono state le oscure vicende degli inizi della stagione di scavo tardo-settecentesca nel sito di Privernum, sito indicato, sin dai tempi del suo abbandono nel XII secolo, con il nome di Piperno Vecchio[7].

La cava, come si chiamava lo scavo nel lessico di allora, risulta già attiva nel gennaio del 1796 e la sua apertura va rivendicata, più che a Petrini o al solo Petrini, all’attività di Robert Fagan (1761-1816)[8], l’archeologo inglese che negli anni novanta del secolo era divenuto lo scavatore più attivo a Roma e nel territorio laziale, sostituendo in questo l’ormai anziano, famosissimo, Gavin Hamilton (1723-1798)[9], pittore e mercante d’arte di origine scozzese di cui Fagan «raccolse la preziosa eredità di conoscenze tecniche, topografiche, storiche e artistiche, e finì col superarlo»[10]. G. Petrini, il cui nome indubbiamente compare spesso in connessione con le scoperte di Privernum, e già dal 1796[11], doveva forse essere entrato in società con l’imprenditore inglese e probabilmente era delegato a seguire i lavori sul campo. Gli scavi furono condotti con regolare licenza della Camera Apostolica anzi, quasi certamente, con quella speciale licenza che Fagan aveva eccezionalmente ottenuto nel 1793, con un rinnovo nel dicembre 1796, per cave su tutto il territorio dello Stato Pontificio, grazie all’interessamento diretto di S.A. il principe Augusto Federico (1773-1843), figlio sestogenito di re Giorgio III e futuro duca di Sussex, di cui l’archeologo era agente e di cui curava e condivideva gli interessi antiquari con aperture di cave ed esportazione di marmi verso la corte britannica e soprattutto verso la residenza del fratello maggiore, principe ereditario e futuro re Giorgio IV[12]. Fra le prime scoperte di Piperno ci fu sicuramente il Tiberio, subito decantato in quel giro di notizie che si diffondevano fra i mercanti inglesi – corrispondenza fra lo Hamilton e i banchieri-mercanticollezionisti Thomas Jenkins (1722-1798) e Charles Townley (1737-1805)[13] -, accompagnato da altre sculture, in un numero e una consistenza ben diversa rispetto ai laconici dati del Fea e di cui danno memoria fonti annalistiche del tempo (ma edite solo nel 1907), le Nouvelles de Rome[14]. Per il mese di gennaio 1796 si trova registrato che: «Auprès de la ville de Piperno … existe une plaine qui conserve encore le nom de Piperno ancien … Différents entrepreneurs, attirés par l’espoir de quelques découvertes, y ont pratiqué des fouilles d’où ils ont tiré immédiatement des monumens de très grand prix, soit en sculpture, soit en inscriptions …»[15]. Quella speranza di «qualche scoperta» che aveva attirato diversi «entrepreneurs» sul suolo di Privernum, ai quali possiamo dare ora almeno i nomi di Fagan e Petrini, fu dunque premiata con monumenti di grande valore di cui viene stilato un elenco che contempla, insieme alla statua di Tiberio, frammenti di una statua di Claudio e «altre due statue di cui una deve essere di qualche Cesare e l’altra, drappeggiata, di una donna, entrambe senza testa, e molte altre belle teste» fra cui erano notevoli quelle di Marco Aurelio, di Giove, di Faustina Minore, di Ottavia «femme infortunée de Néron»[16]. Insieme vengono genericamente citate una quantità di iscrizioni[17] e, in una nota successiva relativa al mese di febbraio, una statua di un ‘Bacco egiziano’ e una statua loricata dove sembrava che «la tête de Marc-Aurelle … y quadre perfaitement»[18]. Le vicende politiche di fine Settecento, fra occupazione francese e Repubblica Romana, calano un velo anche sulle ricerche di Priverno; R. Fagan fu costretto più volte ad allontanarsi da Roma e i sequestri francesi prima[19], e le norme restrittive emanate dall’editto del 1802 di Pio VII poi[20], misero un freno al mercato antiquario e alle esportazioni dei privati; ma nel 1803 le nostre sculture ricompaiono all’interno di un giro di trattative fra il Petrini e Antonio Canova, allora direttore dei Musei Vaticani che poi ne decretò l’acquisto per le collezioni pontificie che in quel momento ‘piangevano’ le perdite causate dalle requisizioni napoleoniche. All’ingresso nei Vaticani solo il Tiberio, il Claudio, intanto trasformato in busto[21], e il frammento di ‘altra statua di imperatore’, allora ritenuto pertinente alla statua di Claudio, ebbero una precisa valorizzazione museale[22] e, illustrati e decantati dalle magniloquenti parole di Giuseppe Antonio Guattani[23], godettero anche di una certa risonanza in letteratura (figg. 1-2). Di tutte le altre sculture si perse invece memoria. Questa volta bisogna aspettare quasi due secoli per ritrovare traccia dei marmi privernati, perché è stato solo durante le ricerche condotte per l’allestimento del Museo Archeologico di Priverno, inaugurato nel 1996, che alcune di queste sculture, grazie all’interessamento e alla competenza di Paolo Liverani, sono ‘riemerse’ dalle collezioni vaticane[24]: e così oggi, almeno la statua loricata con testa (invero non pertinente) di Marco Aurelio (fig. 3), la testa di Giove (meglio da identificare con GioveSerapide) e la statua di un ‘Bacco egiziano’ (in realtà si tratta del dio Bes)[25] (fig. 4), si sono finalmente materializzate fra le memorie di Privernum, per le altre non è detto che continuando a ‘spulciare’ fra le carte dei Vaticani, in qualche sibillina lista di restauratori e mercanti d’arte dell’epoca o, e con buone prospettive, in qualche museo britannico, possano un giorno tornare a far ‘capolino’.

Cave e cavatori nel Settecento.

Questa rapida storia degli scavi, ricostruita su brandelli di notizie, eterogenee e perlopiù casuali e che nulla hanno a che fare con un resoconto che dia ragione del luogo e del contesto di rinvenimento, è conseguenza di quel modo di fare archeologia che caratterizza, con poche e rare eccezioni, tutta la seconda metà del Settecento[26], con scavi finalizzati alla scoperta di ‘opere d’arte scolpite’ – nel gergo degli addetti ai lavori chiamate ‘la robba’ -, che erano soprattutto marmi ma anche medaglie, bronzi, mosaici e quanto c’era di prezioso da poter immettere su un vivace e cosmopolita mercato antiquario in cui si trovavano coinvolti un numero impressionante di colti e intraprendenti personaggi, capaci di soddisfare quella brama di collezionismo di nobili casate italiane ma, specialmente, dei Grand Travellers, ovvero i ricchi e ricchissimi viaggiatori europei, e soprattutto inglesi, che in massa e per tutto il Settecento approdarono a Roma e da cui spesso ripartivano con un ‘pesante’ bottino di cultura classica. Questo modus operandi era del tutto legale[27]; le cave, almeno quelle più accreditate, erano aperte con regolare licenza rilasciata dalla Camera Apostolica che, sulla carta, imponeva il rispetto degli editti emanati in materia di tutela del patrimonio, e dovevano contare sul permesso rilasciato dai proprietari del terreno. Del tutto normale era anche che i cavatori fossero archeologi e al tempo stesso mercanti perché le cave erano imprese costosissime in cui arrivavano a lavorare anche una quarantina di operai più un nutrito team di «caporali, carrettieri, disegnatori, restauratori, mediatori, falegnami, imballatori e via dicendo»[28]. Si scavava per trovare marmi da vendere e si vendeva per finanziare nuovi scavi; era questa la logica imperante e necessaria che muoveva il mondo dell’archeologia ma che tuttavia non impediva che i cavatori fossero spinti da un preciso interesse e una viva curiosità per l’Antico che ne affinava competenze nel campo dell’antiquaria e nella tecnica e perizia dello scavo perché anche la ‘rapina’ di marmi era a tutti gli effetti un’arte, tanto più che cave non redditizie mettevano a dura prova finanze e futuro dei cavatori stessi. Illuminanti, al proposito, alcune considerazioni del Fea: «Senza fallo le statue si devono ricercare dove erano collocate;

Fig.1 : Le statue di Tiberio, di Claudio e di altro imperatore «trovate all’Antico Priverno» (da Guattani 1819).
Fig.1 : Le statue di Tiberio, di Claudio e di altro imperatore «trovate all’Antico Priverno» (da Guattani 1819).
Fig.2 : La statua di Claudio illustrata nei Monumenti antichi inediti per l’anno 1805 di G.A. Guattani.
Fig.2 : La statua di Claudio illustrata nei Monumenti antichi inediti per l’anno 1805 di G.A. Guattani.
Fig.3 : Marmi da Privernum ‘scoperti, dispersi e ritrovati’: statua loricata con testa, non pertinente, di Marco Aurelio. Roma, Musei Vaticani.
Fig.3 : Marmi da Privernum ‘scoperti, dispersi e ritrovati’: statua loricata con testa, non pertinente, di Marco Aurelio. Roma, Musei Vaticani.
Fig.4 : Marmi da Privernum ‘scoperti, dispersi e ritrovati’: a. Testa di Giove-Serapide (inizi III sec. d.C.); b. Statua del dio Bes (II sec. d.C.). Roma, Musei Vaticani.
Fig.4 : Marmi da Privernum ‘scoperti, dispersi e ritrovati’: a. Testa di Giove-Serapide (inizi III sec. d.C.); b. Statua del dio Bes (II sec. d.C.). Roma, Musei Vaticani.

e questa è opera del sapere: il rinvenirle, cioè che non siano state trasportate, che non siano maltrattate, è tutto della fortuna.»[29] La buona sorte giocava quindi un ruolo importante e uno dei cavatori maggiormente ‘baciato’ dalla fortuna, in fatto di statue, fu proprio il nostro Petrini a cui, come continua il Fea, «nelle diverse cave, che egli ha fatto eseguire, non è mai succeduto, come sovente alla maggior parte de’ cavatori, di non trovarne affatto: egli o più, o meno ha trovato sempre; e il meno lo ha rilevato di molto sopra le spese.»[30] Per inciso, il Petrini, dopo la fortunata impresa a Privernum, recuperò dagli scavi sul lago di Paola a Sabaudia, nel 1798, ben ventinove statue31 a cui si aggiunsero i numerosissimi marmi ostiensi (scavi 1802-1804)32 e altre felici scoperte a Roma che gli attribuirono la fama di essere «come veridica palla simpatica nell’aprire la terra» capace di rinvenire «sempre tesori»[33]. Le cave erano spesso aperte e gestite in società, strette fra più cavatori archeologi (e così a Privernum) oppure fra questi e colti capitalisti finanziatori, più o meno titolati e più o meno facoltosi. ‘La robba’ che si recuperava sullo scavo era soggetta a precise ripartizioni: un terzo spettava al-ai finanziatori-cavatori, un terzo al proprietario del terreno e un terzo alla Camera Apostolica, quest’ultima si riservava anche il diritto di riscattare gli altri due terzi qualora ne valesse la pena. Il destino della ‘robba’, che poteva essere ricomprata e rivenduta da terzi o lasciata a saldo di debiti, seguiva strade così ingarbugliate da un fitto intreccio di rapporti e relazioni fra cavatori, restauratori, antiquari, nobili e ricchi viaggiatori, che oggi è difficile seguire e dipanare; quello che è certo è che la maggior parte dei ‘tesori’ prendevano, e perlopiù con regolari permessi, la via dell’estero dando vita a quel fenomeno di dispersione del patrimonio che non aveva avuto precedenti e che non troverà eguali. Contro questo inarrestabile commercio, da cui non rimasero escluse le collezioni delle più nobili casate romane, era intervenuto, a onor del vero, più di un avveduto pontefice con editti e bandi che, nelle intenzioni, avrebbero dovuto frenare il depauperamento sistematico delle gloriose memorie patrie ma che, fra facili e possibili deroghe, sortirono ben pochi effetti positivi[35]. Chi riuscì a imporsi su questo sistema di export fu Pio VI (1775-1798), al secolo Giovanni Angelo Braschi, il papa colto e raffinato che proseguì l’impresa museale di Clemente XIV, promotore del museo Clementino, arrivando, nel 1784, all’apertura del grandioso e prestigioso Museo Pio-Clementino che si presentava come «la più straordinaria raccolta di antichità che esistesse al mondo»[36]. Le mire culturali di papa Braschi convogliarono verso le esigenze del nascente museo vaticano, attraverso una diretta e massiccia politica di acquisti, quel vorticoso commercio d’arte che, a Roma, legava mercanti e antiquari e, soprattutto, proiettarono direttamente la Reverenda Camera Apostolica in una frenetica attività di scavo con l’apertura di numerose cave camerali che entrarono in diretta concorrenza con le diverse società private di cavatori, soprattutto inglesi e italiani, del momento. «Squadre specializzate di scavatori percorrevano lo Stato Pontificio, esploravano il sottosuolo delle vie, delle piazze, degli orti di Roma alla ricerca degli oggetti che occorrevano per completare la collezione del nuovo museo»[37] e «si può dire che non vi sia stato luogo della città o del territorio né località archeologicamente interessante … che non sia stata messa a contributo»[38]. Se è vero che le terre dello Stato Pontificio furono interessate per ogni dove da attività di scavo, è anche vero che l’area di interesse relativamente ai territori più meridionali di Campagna e Marittima non sembra aver oltrepassato la linea AnzioCisterna-Palestrina[39] e la cava di Piperno Vecchio, seguita poco dopo (1798) da quella di Sabaudia si direbbero delle eccezioni di cui vale la pena chiedersi ragione gettando uno sguardo ai fatti che hanno coinvolto l’area lepino-pontina negli ultimi decenni del Settecento.

Pio VI e la ‘grande impresa’ della Bonificazione Pontina.

Al fervore culturale che accompagna gli anni di pontificato di Pio VI, si affianca la ‘grande impresa’ della Bonificazione Pontina cui papa Braschi affidava ampie aspettative di gloria personale ed esaltazione del papato. Nell’ambito del piano di recupero delle terre pontine[40], il suo sguardo attento alle arti e la sua passione per le antichità spinsero direttamente e poi favorirono, con tutto l’appoggio del suo entourage ‘classicheggiante’, quegli interventi di attualizzazione dell’antico[41] che fecero rinascere dagli sconfortanti acquitrini, e in tempi record, il lungo canale navigabile di oraziana memoria (la Linea Pia che le cronache del momento dicono fosse stata suggerita direttamente da Sua Santità e approvata dai tecnici perché sarebbe stata «conforme alle tracce tenute dagli antichi nelle intraprese bonificazioni»)[42] e tutta la ‘magnificenza’ dello spettacolare rettifilo della via Appia. I lavori della bonifica si protrassero ben oltre la morte del pontefice ma subito al loro inizio, sullo scorcio del 1777, tutti gli sforzi, tecnici ed economici furono rivolti alla riscoperta dell’antica via consolare che, appena un anno dopo, l’intraprendente direttore dei lavori pontini, l’ingegnere idraulico bolognese Gaetano Rappini, potè ‘inaugurare’ con tutta l’enfasi dovuta al primo prodigio della ‘grande impresa’ braschiana, un evento tramandato da una bella e ben nota pagina di cronaca scritta da Nicola M. Nicolaj, lo stensore ufficiale della storia della bonifica: «Accorsero in frotta gli abitanti delli circonvicini paesi e si gloriarono di passeggiare sopra le rovine di una delle più belle opere della magnificenza romana. Furono ammirati li ponti … Si viddero le reliquie di quelle maestose guide di grossi travertini … In una parola, restò scoperto quanto vi era di bello e di buono di questo tratto di sì grand’opera degli antichi, e fu constatato che essa appunto non soggiacque interamente alle vicende del tempo, ed all’incuria degli uomini, perché con tanta mole e solidezza fabbricata»[43]. Le meraviglie del rettifilo pontino rimasero in luce per ben poco tempo perché il prezioso lastricato in selce della strada fu presto divelto per essere ridotto a massicciata di una nuova e più funzionale carreggiata che, dell’antica, ripeteva solo il tracciato[44]; fra i lavori, prima di recupero, poi di smantellamento della via Appia e quelli dello scavo della Linea Pia e di tutti gli altri canali di bonifica si scoprirono un’infinità di ‘anticaglie’: lapidi, miliari, monete (in numero stupefacente), metalli, statue, colonne, marmi ma anche fabbriche, muri (all’occorrenza fatti saltare con la dinamite se inutili o distrutti per ricavarne materiale da costruzione) e addirittura «logge e magazzeni vasti che pare un pezzo di pompeiano»[45], e già nel 1779 il Rappini poteva annotare «Ormai … ho un capitale di sempre nuove lapidi»[46]. Era dunque iniziata la riscoperta archeologica delle terre pontine o, meglio, l’archeologia pontina, che già dal Seicento era stata oggetto di importanti conquiste scientifiche soprattutto con i lavori di Domenico Parasachi e Luca Holstenio[47], acquisiva ora una visibilità, diciamo, popolare e, con questa, ancor prima di un interesse culturale veniva a sollecitare il mercato antiquario e un commercio clandestino che in breve si fece così inquietante da spingere la Camera Apostolica a intervenire con un apposito editto[48] che prevedeva pene severissime verso chiunque vendesse o comprasse qualsivoglia antichità rinvenuta durante i lavori di scavo in palude[49]. L’editto non dovette avere gli esiti sperati, almeno a giudicare dal numero davvero esiguo di ‘pezzi pontini’ confluiti in Vaticano[50] e, di contro, dai processi celebrati a Terracina nel 1784 per i numerosi «trafugamenti di antichità»[51], ma quello che conta rimarcare è che la notizia di queste inaspettate scoperte rimbalzò a Roma ed ebbe una certa risonanza in quel vivace mondo di mercanti-antiquari sollecitando curiosità e attenzioni del tutto nuovi per questo territorio[52]. I tempi della bonifica, al di là degli esiti igienicoambientali raggiunti che certo non furono all’altezza delle aspettatitive, furono anche i tempi in cui quel mondo perduto delle Paludi che, vale ricordare, altro non era se non parte «delli territorij di Norma, Sermoneta, Sezze, Piperno, Sonnino e Terracina» così come in antico, quel mondo allora tutt’altro che paludoso[53] era stato porzione dell’ager Romanus e diviso fra le città di Norba, Setia, Privernum e Tarracina, si aprì e si rivelò, insieme a tutto l’isolato entroterra, agli occhi di un gran numero di osservatori, tecnici, ingegneri, idraulici, viaggiatori, personalità, uomini di Curia etc., che lo percorsero ‘per lungo e per largo’ sollecitando sguardi sempre più attenti e attivando una rete di relazioni in cui le ‘Genti Lepine’ erano pienamente coinvolte.
Il fervore delle scoperte archeologiche, accompagnato dall’enfasi di una propaganda degna dell’occasione, raggiunse dunque, e rapidamente, gli ambienti colti della capitale e, a livello locale, in un territorio che fino allora, salvo qualche raro e sporadico caso, aveva affidato la memoria del suo passato solo alle parole della tradizione letteraria, venne a coinvolgere le aristocrazie locali e a sollecitare quanti, già appassionati d’antichità, cominciarono a intravvedere la possibilità di scoprire anche nel sottosuolo delle proprie ‘terre patrie’ tesori concreti di quelle storie narrate. L’Appia pontina intanto, via via supportata da una sequenza di Palazzi di Posta che facevano rivivere le antiche stationes romane, nel 1784 tornava in piena efficienza lungo tutto il tratto da Cisterna a Terracina, e la sua apertura, sancita da un editto della Camera Apostolica[54], segnò il nuovo itinerario della strada postale Roma-Napoli che andava a sostituire quella vetusta via pedemontana che si snodava alle falde dei Lepini e che fino allora era stata l’unico mezzo possibile per attraversare le terre della Marittima[55]. Un itinerario, questo pedemontano, svelato nelle pagine della letteratura geograficoantiquaria e poi di viaggio sin dai tempi di Biondo Flavio (metà Quattrocento)[56] e che aveva avvicinato studiosi, turisti e viaggiatori ai Monti Lepini incorporando e mescolando lungo il suo percorso tutte quelle memorie letterarie che rendevano famosi alcuni luoghi della via Appia (Tres Tabernae, Forum Appii, ad Medias), e la via stessa, che le paludi non permettevano non solo di rintracciare ma neppure di immaginare all’interno della pianura allagata. Sul finire del Settecento, i Grand Touristes possono così cominciare a percorrere la ‘vera’ via Appia e fra i primi, su questo nuovo itinerario, ci furono, nel 1787, Johann Wolfgang Goethe[57], ma soprattutto il colto mecenate, archeologo inglese Sir Richard Colt Hoare che, nel 1789, accompagnato dal disegnatore romano Carlo Labruzzi, volle ricalcare il lungo viaggio di Orazio del 37 a.C. (Sat. I, V) da Roma a Brindisi lasciandone memoria in un prezioso dossier[58] di testimonianze archeologiche ed epigrafiche accompagnato dal reportage grafico del Labruzzi[59] con alcune belle vedute delle rinate stationes dell’Appia pontina (fig. 5). Se questo nuovo itinerario comincia ad allontanare i Monti Lepini dagli sguardi colti del Grand Tour, nuovi fermenti culturali e nuovi interessi di studio portano ora alla ribalta le antiche città lepine: i centri d’altura si impongono con i loro circuiti in opera poligonale nella ‘questione pelasgica’[60] mentre il sito abbandonato di Privernum romana, in pianura, emerge come luogo di ‘cava’ archeologica.

Fig.5 : La statio ad Medias, lungo il tratto pontino della via Appia, in un disegno di C. Labruzzi 1789. Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Fig.5 : La statio ad Medias, lungo il tratto pontino della via Appia, in un disegno di C. Labruzzi 1789. Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Privernum, da luogo di memorie letterarie a cava di antichità.

Per riavvicinarci a Privernum e al richiamo che deve aver esercitato come promettente luogo di cava e fertile terreno di ‘tesori’, va posta attenzione su un testo dato alle stampe a Roma, nel 1780: la Lettera apologetica scritta dal pastore Fausto Cassandri di Roccasecca al reverendissimo don Ignazio Laurentini canonico di Terracina il dì 15 giugno 1780. Si tratta di un breve opuscolo, in tutto quattordici pagine, in cui il colto autore, celato dietro lo pseudonimo ‘boscareccio’ di un tal pastore F. Cassandri[61], si destreggia, e con buona erudizione, intorno a quei leit motive della storia di Privernum che, ripetuti quasi come un ritornello da chiunque abbia gettato uno sguardo a questa terra, intrecciano in una sola memoria la tradizione letteraria antica e umanistica: Camilla e Metabo (Virgilio), la fierezza dei Volsci Privernati (Livio, Valerio Massimo etc.), la enigmatica distruzione della città (Biondo Flavio)[62]. Ma qui, più della trama della Lettera, interessa il lungo apparato di note che scorre come un testo parallelo e che esordisce con la notizia del ritrovamento di una base inscritta «scoperta il 15 ottobre 1776 dal Capitan Pasquale Zaccaleoni, Patrizio Privernate, dilettante d’antichità, situata in un amplo Foro, e propriamente in un sito nomato dal volgo per continua tradizione la Piazza della Regina, nell’antica Città di Piperno»[63]. Le lunghe note sono anche occasione per un excursus erudito e consapevole su temi quali la civitas, il diritto di suffragium, la colonia e per pubblicare per la prima volta – e questo particolare è sfuggito ai redattori del CIL X – anche un testo epigrafico appena scoperto nei pressi della via Appia, non lontano da Ponte Maggiore[64]. Pasquale Zaccaleoni (1740-1811), personaggio di spicco della società privernate, esponente di una delle famiglie più antiche e illustri della città[65] e, peraltro, punto di riferimento locale per i tecnici della Bonificazione Pontina che si trovano a lavorare nelle zone interne del Circondario[66], aveva dunque aperto la strada al recupero di memorie dal sottosuolo di Piperno Vecchio dandone subito pubblica notizia, perché certamente fu lui l’autore ‘celato’ della Lettera apologetica[67], e dimostrando interesse e partecipazione per la riscoperta archeologica della Palude. La Lettera apologetica non dovette avere una grande diffusione[68], ma la notizia delle scoperte privernati e soprattutto le potenzialità archeologiche del suolo dell’antica città non dovettero tardare a diffondersi e raggiungere quegli ambienti altolocati della Capitale, privati e di Curia, assetati di cave feconde e di nuove scoperte. Ne siamo informati dall’erudito epigrafista Girolamo Amati, in uno studio del 1828 che raccoglie una prima, seppur breve, silloge ragionata di iscrizioni privernati[69]. Dalle sue parole sappiamo che fecero da tramite a questo propagarsi di notizie, e a più riprese, ancora esponenti del casato Zaccaleoni: in un primo momento, sul finire del ‘700, fu forse lo stesso Pasquale, che intanto continuava le sue scoperte archeologiche[70], a sollecitare l’attenzione di un alto prelato mentre, qualche decennio più tardi, l’avv. Agostino, insieme a suo fratello (Luigi)[71], si fece proficuo informatore nei confronti dell’Amati stesso del patrimonio epigrafico e della piccola collezione sovente registrata in una delle dimore degli Zaccaleoni[72]: «Godiamo di poter accrescere la nostra messe con ricolta non aspettata di un suolo sì nobile [di Priverno]. Ciò è avvenuto per bella premura del patrizio privernate sig. Agostino Zaccaleoni, che tanto ama il decoro della sua patria, quanto in Roma distinguesi per gli studi della giurisprudenza, sotto la direzione dell’acclamatissimo patrono il sig. avvocato Domenico Morelli. Siamo grati a lui, e al suo sig. fratello; e vogliamo, che la gratitudine nostra per nuove scoperte si aumenti. Ci ricordiamo ancora, che l’anno 1796, monsignor Rusconi, allora uditore del camarlingato, avendo preso intelligenza e passione delle antichità, per amicizia co’ legittimi conoscitori delle medesime, portossi a villeggiare in Priverno nella nobil e gentil casa Zaccaleoni; e prometteaci tesori dal foro della città, quasi intatto sotto un cumolo di macerie. Sopravvenne però l’amara catastrofe delle cose pubbliche d’Italia; per cui questa, e tante altre imprese di onor vero e diritto nazionale nostro, andarono indegnamente omesse e perdute»[73]. Quindi, nel 1796, la speranza di scoprire ‘tesori’ nel foro della città aveva richiamato a Privernum non solo i cavatori Fagan e Petrini (di cui si è già parlato), ma anche monsignor Lamberto Rusconi (1743-1825), alto funzionario di Camera, uditore del Camerlengato sotto Pio VI[74], appassionato collezionista e proprietario di una cospicua raccolta epigrafica, il quale, durante il suo breve soggiorno privernate[75] partecipò direttamente, e si direbbe in veste privata, al recupero – che possiamo certo immaginare con ‘scavi di rapina’ – di alcune iscrizioni (e sicuramente le CIL X, 6450 e 8288) poi confluite, insieme a tutta la sua collezione, nei Musei Vaticani[76].

L’Ottocento: verso una nuova coscienza del patrimonio.

Se «l’amara catastrofe delle cose pubbliche d’Italia» (invasione napoleonica) aveva bruscamente interrotto le promettenti attività di scavo nel privernate, i primi tempi della Restaurazione portano ancora alla ribalta il suolo di Privernum, grazie a un’occasione tutta locale legata alla costruzione della piccola chiesa rurale della Madonna di Mezzagosto (Santa Maria Assunta) all’interno dell’area della città romana. Il canonico Giuseppe De Bonis, promotore, per conto del Capitolo della Cattedrale di Priverno, e direttore dei lavori della costruenda chiesetta, forte della buona sorte che, intorno al 1820, nel fare i cavi di fondazione aveva portato al recupero di due iscrizioni[77], fiutò la possibilità di finanziare nuovi interventi edilizi tentando scavi fra le rovine sparse nei dintorni con la speranza, apertamente dichiarata, di recuperare marmi da rivendere. Ma le mire del reverendo, ancora pienamente calato nella mentalità del cavatore settecentesco che, in ambiente clericale, ‘sarà dura a morire’, si scontrarono con quelle nuove e moderne tendenze in materia di tutela del patrimonio nazionale emanate dal famoso Editto Pacca, dal nome del cardinale camerlengo Bartolomeo Pacca che lo siglò il 7 aprile del 1820[78]. Nel Regolamento che ne chiariva le prescrizioni, stilato l’anno successivo, traspare tutto l’innovativo interesse verso una riscoperta della memoria collettiva proiettata finalmente su ogni terra dello Stato Pontificio, anche quelle più periferiche e fino allora rimaste in ombra: «dovrà riflettersi che come in Roma dalle singolari Antichità si reca sommo splendore alla Metropoli dell’Universo, così nelle altre Città, o Paesi si debbono avere in considerazione quelle locali celebrità, ancorché mediocri … Perché distruggendo quelle memorie, si può ben spesso incorrere nella taccia di aver distrutto un monumento interessante, e che se pur tale non era, richiamava alla mente qualche punto di storia patria»[79]. Con la pianificazione amministrativa attuata con la Restaurazione, lo Stato Pontificio, come noto, era stato diviso in diciassette Province o Delegazioni (motu proprio di papa Pio VII del 6 luglio 1816); l’Editto Pacca istituì in ognuna di queste e ai fini di una corretta vigilanza sul territorio le Commissioni Ausilarie che dovevano coadiuvare, nell’applicazione della nuova legge, la Commissione di Belle Arti di Roma, organo centrale dello Stato[80].

La Commissione Ausiliaria di Frosinone, nella cui giurisdizione ricadeva Priverno, intervenne con decisione contro le mire di scavo del De Bonis, cercando, attraverso i suoi Delegati e nel rispetto delle nuove normative che tutelavano l’integrità dei monumenti, di mettere un freno e indirizzare al meglio le ricerche del reverendo che comunque, dopo tutta una serie di trattative, nel 1831 raggiunse lo scopo riuscendo a scoprire, non si sa bene in quale punto della città, una costruzione semicircolare (?) con diversi marmi calcinati fra cui tre pregevoli sculture utilizzate come «masso da murare» che, solo in parte, riuscirono però a soddisfare le sue tanto auspicate entrate economiche[81]. Tre, come detto, i marmi di pregio recuperati dal De Bonis. Un busto, praticamente integro e di notevole valore, attribuito prima a Cicerone e poi a Galba, fu acquistato nel 1836, e per 100 scudi, dai Musei Pontifici ma seguendo quella particolare e strana sorte delle memorie privernati, di lui si perse ben presto, appunto, memoria[82]. La sua riscoperta è avvenuta in tempi recenti, ancora una volta legati all’allestimento del Museo Archeologico di Priverno e ancora una volta interessati dalla preziosa collaborazione di Paolo Liverani: si tratta del busto di Lucio Giulio Urso (fig. 6)[83], personaggio di spicco della nobiltà senatoria romana, vissuto sotto gli imperatori Domiziano e Traiano, che fu per ben tre volte console (PIR2 I, 631); il busto, per quasi due secoli, è stato esposto, schedato e pubblicato come proveniente da Ostia Porto[84] ma sulla cui origine privernate oggi non sussistono dubbi[85]. Le altre due sculture, ‘scartate’ dai Vaticani, furono immesse sul mercato antiquario e, rimaste senza acquirente, furono donate dal canonico, nel 1839, a papa Gregorio XVI e da questi destinate ai Musei Capitolini. Si tratta di un raffinato ritratto postumo di Germanico del ‘tipo Gabi’[86] (fig. 7b) e di una testa colossale sul momento intesa come Apollo e poi, dopo essere stata in parte ‘riplasmata’, attribuita ad Alessandro il Macedone[87] (fig. 7a). Il Germanico, nel tempo, ha avuto una certa fortuna negli studi di scultura antica soprattutto per essere stato spesso associato, attraverso un confuso giro di provenienze, con i marmi imperiali scoperti nel Settecento (Tiberio e Claudio) con cui, si pensava, doveva costituire un’unica ‘galleria imperiale’, mentre decisamente in ombra è rimasto il c.d. Alessandro. Il pezzo, ancora una volta, solo in tempi recenti e recentissimi ha suscitato interessi di studio che ne hanno richiamato la possibile appartenenza, prima, a una statua di Dioscuro[88] e ora, con molta verisimiglianza, a un grandioso simulacro di Athena Promachos della seconda metà del II sec. a.C.[89].
Gli anni trenta dell’Ottocento, insieme alle scoperte del De Bonis, continuano a registrare una certa vivacità di interessi. A più riprese vengono richieste licenze di scavo (di cui non si conoscono gli esiti)[90] e, soprattutto, nel 1830 troviamo impegnato in diversi punti della città un giovane Pietro Ercole Visconti (1802-1880), nipote dell’illustre Ennio Quirino, che sarà lui stesso archeologo di fama, insignito di prestigiose cariche istituzionali e accademiche[91]. I resoconti ufficiali dei suoi interventi parlano di ritrovamenti di poco conto[92], ma a Priverno correva voce che le scoperte, quelle importanti, avvenissero di notte con scavi frettolosamente ricoperti durante il giorno; un’attività clandestina che, sembra, avesse fruttato anche una statua equestre e una di bronzo ‘dorato’ e che, si diceva, fosse patrocinata e sostenuta da una nobildonna, che ad oggi rimane misteriosa, indicata ora come «una principessa francese» ora come «duchessa De Berri»[93]. In tutto questo susseguirsi di scavi, scoperte, sculture, iscrizioni, attribuzioni, fortune e dispersioni, non c’è stata occasione di far riferimento alle rovine di Privernum, rovine costantentemente ricordate, e spesso come ingenti, già dai tempi dell’Umanesimo ma che, pertinenti alla fase di vita altomedievale della città, avevano perso la loro leggibilità ‘antica’ e soprattutto, a prima vista, nulla più conservavano di quelle originarie forme architettoniche classiche che interessavano eruditi e studiosi dell’Antico dei secoli trascorsi. Sintomatica la frase che Luigi Rossini, in calce a una tavola del suo Viaggio Pittoresco da Roma a Napoli, dedica alla nostra citta ‘volsca’: «Alla quinta posta da Roma si arriva all’albergo di Cisterna, luogo veramente melanconico … Seguitando poi il viaggio di Napoli si va a Sermoneta … Alle sei miglia da Sermoneta si va a Sezze, anticamente Setia … Alle sette miglia da Sezze è l’antica città di Piperno Privernum città dei Volsci, in cui sono pure considerabili avanzi di fabbriche antiche ma che non presentano materia degna da incidersi…»[94].

Negli scavi poi, e soprattutto quelli del Settecento, la documentazione del contesto, tanto più se non poteva richiamare forme monumentali, rimaneva del tutto accessoria, per non dire superflua e così i marmi ritrovati, quando avevano la fortuna di entrare nel mondo dell’arte e della storia – e nel caso dei ritrovamenti di Priverno, come visto, ben pochi furono i marmi effettivamente noti ai contemporanei -, si facevano pedine astratte di ricerca erudita perché, per dirla con il Guattani, quello che contava era «il contenuto e non il contenente»[95]. In questa mancanza di memorie monumentali si fa particolarmente preziosa la prima – e rimasta per lungo tempo l’unica – immagine di una rovina privernate ripresa con sguardo di attento studioso da Edward Dodwell nel 1810: Ancient Gate at Piperno Vecchio[96] (fig. 8) e, insieme, lo studio di Giuseppe Marocco, Descrizione topografica e cenni storici di Piperno, edito nel 1830. Il Dodwell visitò le rovine di Privernum durante i primi tempi del suo soggiorno in Italia quando, sposata la teoria ‘pelasgica’ del Petit Radel, stava compiendo la sistematica opera di documentazione dei centri con mura in opera poligonale del Lazio meridionale[97]; fu a Piperno Vecchio forse in occasione del sopralluogo del 1810 a Terracina[98] e probabilmente per verificare se quelle «ruines appellées Piperno Vecchio» segnalate negli Eclaircissemens[99] conservassero strutture ‘ciclopiche’, in realtà inesistenti nel sito della città romana. L’attenzione del Dodwell cadde comunque su un’antica porta – si tratta di un arco romano[100] inglobato nel circuito di mura post-antiche – di cui notò i grandi blocchi calcarei dei suoi piedritti; una presenza che non poteva interessare certo l’opera poligonale ma il suo ‘rilievo’, rimasto sconosciuto fra i bozzetti inediti dello studioso inglese, è oggi preziosa testimonianza di un contesto che nel tempo è letteralmente sparito. Nella Descrizione del Marocco, trova invece spazio per la prima volta, seppure con molti fraintendimenti, un quadro archeologico della città antica con una rara descrizione del sito di Piperno Vecchio, una sintesi sugli scavi e scoperte via via effettuati e con un tentativo di dar corpo alla topografia della città per la quale viene proposta un’estensione ‘fuori misura’ che ricalca una teoria seicentesca dello storico privernate Teodoro Valle[101], rimasta in auge fino agli inizi del ‘900 e che troviamo graficizzita nella Pianta dell’antico Piperno ideata dal Perito Sig. Vincenzo Guidi[102] (fig. 9). La stagione degli scavi dell’Ottocento si conclude, allo scorcio del secolo, con il privernate Giuseppe Jannicola (1859-1926)[103], figura di attento e appassionato cultore locale, che fu Ispettore Onorario dei Monumenti e Scavi di Antichità del Mandamento di Piperno dagli anni 1892[104] e perlomeno fino al 1924. La sua attività ha inizio dunque nei decenni immediatamente successivi l’Unità d’Italia, in quella stagione di grandi e dinamiche riforme sul patrimonio culturale fondate su precisi obiettivi di conoscenza, tutela e valorizzazione indirizzati, nel campo dell’archeologia, verso ogni scoperta che si fosse verificata in «qualsivoglia contrada del Regno». Un momento, questo, che a Priverno coincide con un clima piuttosto dinamico che vede operare insieme le figure più illuminate della città: si comincia a parlare dell’istituzione di una Biblioteca con Museo e Pinacoteca e si fa sempre più strada la consapevolezza di dover diffondere la cultura per far conoscere e tramandare ai posteri le memorie patrie[105]. Il canonico don Michele Sargenti (1813-1893) si prodiga in un’opera colossale, De’ Volsci e Pipernesi illustri, dove trova ampio spazio anche una dettagliata, erudita, storia degli scavi di Piperno Vecchio (aggiornata con notizie ‘di prima mano’) «acciò non si perda la ricordanza di essi»[106]; il parroco don Vincenzo Oliva (1831-1896) raccoglie e segnala iscrizioni antiche ed è prezioso punto di riferimento, sul posto, per le ricerche epigrafiche del Mommsen e di G.B. De Rossi[107], e soprattutto, con loro e dopo di loro, l’ispettore Jannicola si fa portavoce di una nuova, nascente coscienza culturale: con lui l’archeologia locale comincia ad aprirsi verso una ricerca puntuale sul territorio con la registrazione di dati, monumenti e contesti che si sente la necessità di indagare, auspicabilmente attraverso lo scavo, nel loro significato storico e topografico. Gli Ispettori Onorari, nominati fra notabili e accademici locali (a ufficio gratuito), erano destinati a svolgere un’ampia azione di vigilanza sui territori municipali e a fungere da collegamento con il Ministero; loro compito era anche quello di «tenere disciplina degli individui addetti agli scavi e custodire i monumenti, provvedere all’integrità degli oggetti ritrovati ed alla loro conservazione, redigere convenevolmente il giornale degli scavi, informare intorno a quanto può interessare la scienza ed agevolare chicchessia con ogni modo nello studio dei monumenti»[108]. Jannicola si calò perfettamente in questo ruolo: a un’indagine diretta su tutto il territorio privernate alla ricerca di testimonianze archeologiche fece seguire un gran numero di segnalazioni e relazioni inviate con solerzia e tempestività al competente Ministero e oggi raccolte in un voluminoso carteggio compreso fra gli anni 1893 e 1924 (o 1926)[109]. Ma il suo interesse non si esauriva nella ricerca sul campo perché, con una sensibilità tutta nuova e con instancabile tenacia, si prodigò anche per la salvaguardia e la conservazione del patrimonio della sua terra, e non solo quello archeologico, rimasto fino allora dimenticato. In fatto di scavi, poi, aveva sollevato la voce contro gli interventi ‘di rapina’ di opere d’arte e aveva stilato un programma, purtroppo rimasto ‘sulla carta’, accompagnato da preziose note di documentazione archeologica – la relazione Scavi a Piperno (1894) corredata da Il tipo Catastale del centro di Privernum[110] – finalizzato soprattutto al chiarimento di alcuni elementi strutturali dei monumenti noti e all’individuazione di dati utili alla topografia della città antica. Proponeva, ad esempio, di scoprire «il suolo di Privernum», di indagare il percorso del «fognone lastricato», di trovare il piano di spiccato delle mura della «Città forte nel cuore di Privernum» (volsca) e di scavare il tempio «degli Augustali». Le attribuzioni dei monumenti che lo Jannicola ha via via proposto nei suoi scritti risentono di erudito dilettantismo e il quadro storico che qua e là affiora non trova, se non raramente, un giusto vaglio critico, tuttavia l’ottica decisamente moderna con cui ha affrontato problemi di conoscenza e tutela, che per lungo tempo rimarrà un silente assolo nella cultura locale, e la sua capacità e disponibilità di «informare intorno a quanto può interessare la scienza ed agevolare chicchessia con ogni modo nello studio dei monumenti»[111] ne fanno una pedina di primaria importanza nello sviluppo degli studi dell’archeologia privernate. Al nostro ispettore onorario, e al suo sguardo attento verso i contesti di scavo, va anche il merito di aver fatto redigere la Pianta degli avanzi dell’antico Piperno rinvenuti nel rialzamento della Strada Provinciale (fig. 10) in cui si visualizzano le scoperte archeologiche avvenute a seguito di lavori stradali eseguiti nel 1901 dalla Provincia di Frosinone, lungo l’asse viario principale di Privernum, ricalcato appunto dall’allora via Provinciale Marittima[112]. Nell’occasione seguì le attività di sterro con grande attenzione (cosa che risultò decisamente poco gradita ai responsabili del cantiere) e, pienamente consapevole dell’importanza di quelle memorie che emergevano dal suolo, di sua iniziativa le fece documentare sulla Pianta che, per nostra fortuna, si è conservata intatta fra le sue carte, oggi gelosamente custodite dall’omonimo nipote.

Lo scavo a Ceriara di Priverno: una presenza inaspettata nella ‘questione pelagica’.

Fra le tante notizie di antichità rese note dallo Jannicola, ce ne è una, datata 1893, relativa a un «un ambiente sotterraneo coperto a volta di grandi massi calcarei»[113](tholos), situato in prossimità di un terrazzamento in opera poligonale, all’interno della piana di Ceriara, proprio sul confine con l’agro di Sezze; una presenza, limitamente al terrazzamento, sino allora fugacemente ricordata solo dal Marocco[114] ma che non sfuggirà, di lì a poco, al sapiente ‘occhio’ fotografico del padre domenicano inglese Peter Paul Mackey (1851-1935), durante una delle sue passeggiate archeologiche[115] (fig. 11). La notizia dell’ambiente sotterraneo suscitò grande interesse in ambito ministeriale perché fu ritenuta di «non comune importanza archeologica» per il rapporto che poteva avere «colla questione relativa all’epoca cui spettano le costruzioni c.d. pelasgiche dell’Italia centrale»[116], al punto da far intraprendere al Ministero stesso uno scavo negli anni 1895-1897 – il primo scavo ufficiale in territorio lepino – e proiettare Priverno, del tutto inaspettatamente, nella ‘questione pelagica’. L’ampio e approfondito spazio dedicato in questo Volume al tema ‘del poligonale’ con i saggi di F.M. Cifarelli e S. Quilici Gigli e le recenti e approfondite analisi di V. Nizzo[117] sulla ripresa della ‘questione pelasgica’ in Italia negli anni 1871-1903, ci dispensano dal tornare sull’argomento se non per dire che quello scavo richiamò a Priverno due valenti studiosi, G.B. Giovenale (1849-1934), architetto, e L. Mariani (1865-1924), archeologo, entrambi impegnati, da protagonisti, nel dibattito scientifico sulle ‘origini degli italici’[118] ed entrambi aderenti alla corrente tradizionalista (che riteneva le costruzioni pelasgiche di alta antichità) e convinti seguaci delle teorie del gesuita calabrese Antonio Cesare De Cara (1835-1905), tenace assertore della tesi che voleva una migrazione dei Pelasgi (identificati con gli Hethei-Ittiti) dall’Asia Minore alla Grecia e poi all’Italia[119] . Lo scavo della ‘tholos’ fu diretto sul campo dall’ispettore Jannicola ma agli studiosi romani fu affidato il compito di esaminare il monumento e gli oggetti recuperati; la loro relazione, tempestivamente e con competenza edita nelle Notizie degli scavi[120], fu anche l’occasione per dar notizia di numerose costruzioni in poligonale conservate nei dintorni (perlopiù segnalate dall’infaticabile Jannicola) e di tutta una serie di materiali[121] raccolti nell’area della città romana e custoditi dal nostro ispettore. In merito al monumento scavato, peraltro descritto, documentato e rilevato con grande attenzione (fig. 12)[122], fu constatato che, adibito a cisterna, doveva essere rimasto in uso per tutta l’età romana e fino «all’era barbarica» così come, in età romana, il terrazzamento in opera poligonale doveva essere stato certamente utilizzato come basamento di una villa rustica. Se i materiali rinvenuti dimostrarono dunque agli studiosi che l’utilizzo di queste strutture era inequivocabilmente ‘tardo’, la loro originaria costruzione fu però ritenuta preromana o perlomeno arcaica e ventilata come pertinente a «un santuario comune alle vicine borgate volsche» con necropoli da collegare a un eventuale abitato volsco situato sulla sommità del vicino monte Macchione. Per l’edificio sotterraneo fu adombrata la possibilità che potesse trattarsi di una tomba perché tanto ricordava, «sebbene rozzamente le tombe a tholos comuni nell’epoca micenea» e soprattutto «le rozze cupolette della necropoli di Erganos in Creta»[123]. Questa lettura in chiave preromana era perfettamente in linea con le convinzioni culturali che Giovenale e Mariani nutrivano in quel momento, peraltro non immuni, e soprattutto nell’immaginario del Mariani, da quei ‘fantasmi micenei’ che aleggiavano intorno all’interpretazione dell’architettura funeraria del Lazio protostorico[124]. Gli scavi di Norba, di lì a poco (1901), spazzarono in un sol colpo le teorie sui Pelasgi e sull’alta antichità delle costruzioni in poligonale e le rovine di Ceriara, perso il loro fascino ‘pelasgico’, furono ricondotte a una più realistica, per quanto meno attraente, dimensione storica e funzionale e non fecero più grande notizia[125].

NOTE

1 Fea 1802, p. 6. Il profilo biografico di G. Petrini rimane nel complesso ancora oscuro, cfr. bignamini 1996, p. 333.
2 Fea 1802, p. 7 nota 1.
3 Lanciani 2000, PietrangeLi 1958, 1983, 1985, 1995, quest’ultimo in particolare per il territorio pontino.
4 Sull’attività di studio e di ricerca di I. Bignamini (1952-2001): P. Liverani, in bignamini, hornsby 2010, I, pp. XI-XIV.
5 Bignamini 1999, p. 13, cfr. Pietrangeli 1958, Liverani 2010.
6 Bignamini 1996, pp. 385-386; Bignamini 2004, p. 98 e anche Bignamini, Hornsby 2010, I, pp. 129-130; ivi, nella Privernum IGM map section, l’ubicazione del sito della città romana è errato.
7 Una rapida sintesi su questi e i successivi scavi a Privernum in Armstrong 1911, pp. 181-182; v. anche Angelini s.d. [1984], pp. 9-13; Cancellieri 1998, pp. 8-9; Cancellieri 2008, pp. 31-33; Ciceroni 2011. Un panorama completo, dall’Umanesimo a oggi, è tracciato ora in Cancellieri, Laurenzi c.s. Per un quadro di sintesi storico-topografico su Privernum v. Cancellieri 2001.
8 Vedi Bignamini 1996, p. 385: in un resoconto sulle antichità della Sicilia, R. Fagan, nel 1812, a proposito di un confronto per un torso della collezione del principe di Biscari scrive: «Una simile figura della stessa grandezza ho trovato a Piperno, non lungi da Terracina, … ed era il ritratto di Tiberio rappresentato all’eroica. … Questa statua fu venduta al papa Pio VI ed esiste presentemente nel Museo …».
9 Per R. Fagan (su cui fondamentale Bignamini 1996), G. Hamilton e tutti i personaggi via via citati che rientrano in quel mondo di scavatori e antiquari del 18° sec. attivi a Roma e dintorni, si rimanda alla completa schedatura in Bignamini, Hornsby 2010, I, ad indicem.
10 Bignamini 1996, pp. 333.
11 Cfr. lettera n. 416 citata nella nota 13.
12 Bignamini 1996, p. 333.
13 Le lettere, conservate nel Townley Archive del British Museum, sono edite in Bignamini,

Fig.6 : Ancora un marmo da Privernum ‘scoperto, disperso e ritrovato’: busto di L. Iulius Ursus - età traianea (calco). Priverno, Museo Archeologico da originale ai Musei Vaticani.
Fig.6 : Ancora un marmo da Privernum ‘scoperto, disperso e ritrovato’: busto di L. Iulius Ursus - età traianea (calco). Priverno, Museo Archeologico da originale ai Musei Vaticani.
Fig.7 : Sculture da Privernum ai Musei Capitolini: a. Testa colossale (rilavorata) di Athena Promachos - seconda metà II sec. a.C.; b. Ritratto postumo di Germanico.
Fig.7 : Sculture da Privernum ai Musei Capitolini: a. Testa colossale (rilavorata) di Athena Promachos - seconda metà II sec. a.C.; b. Ritratto postumo di Germanico.
Fig.8 : Un’antica porta a Piperno Vecchio. Edward Dodwell, 1810. London, Soane’s Museum.
Fig.8 : Un’antica porta a Piperno Vecchio. Edward Dodwell, 1810. London, Soane’s Museum.
Fig.9  : Pianta dell’antico Piperno -  fine XIX sec. Collezione privata.
Fig.9 : Pianta dell’antico Piperno - fine XIX sec. Collezione privata.
Fig.10 : Pianta degli avanzi dell’antico Piperno - 1901 (cortesia G. Iannicola).
Fig.10 : Pianta degli avanzi dell’antico Piperno - 1901 (cortesia G. Iannicola).
Fig.11 : Il terrazzamento in opera poligonale di Ceriara fotografato dal padre Peter Paul Mackey alla  fine dell’Ottocento. Archive British School Rome.
Fig.11 : Il terrazzamento in opera poligonale di Ceriara fotografato dal padre Peter Paul Mackey alla fine dell’Ottocento. Archive British School Rome.
Fig.12 : L’ambiente con copertura a tholos di Ceriara in un disegno manoscritto. Roma, Archivio Centrale dello Stato.
Fig.12 : L’ambiente con copertura a tholos di Ceriara in un disegno manoscritto. Roma, Archivio Centrale dello Stato.

Hornsby 2010, II, nn. 416-417, pp. 209-210. La lettera dello Hamilton, datata 24 aprile 1796 (ibid. n. 416, p. 209), informa che (si traduce dall’inglese) «Petrini e soci sono stati più fortunati nella loro cava di Piperno Vechio (sic) dove sono stare trovate molte cose fra cui, la più interessante, è la statua seduta di Tiberio».
14 Nella Correspondence des directeurs de l’Académie de France a Rome avec les surintendants des batiments edita in De Montaiglon, Guiffrey 1907.
15 De Montaiglon, Guiffrey 1907, n. 9536, pp. 407-408.
16 De Montaiglon, Guiffrey 1907, n. 9536, pp. 408-409.
17 In quest’occasione furono probabilmente scoperte le basi CIL X, 6439 e 6440-6441 (= ILS 1250, su un’unica base); Armstrong 1911, p. 181, nota 37, segnala di aver trovato notizia nell’Archivio Comunale di Piperno, alla data del 6 febbraio 1796, di un pagamento di «2 scudi e 20 bajocchi» effettuato a favore di Alessandro Nardelli per aver trasportato da Piperno Vecchio alla città «due piedestalli con iscrizione concernenti antichità».
18 De Montaiglon, Guiffrey 1907, n. 9537, pp. 410-411.
19 Un quadro sulla politica delle requisizioni francesi in Tittoni 1999.
20 Con Chirografo di Pio VII a tutela dei monumenti, opere antiche e belle arti del 1° ottobre 1802, la Camera Apostolica, fra l’altro, impose a cavatori, mercanti e restauratori di stilare elenchi di marmi in loro possesso e di offrirli alle collezioni pontificie, logicamente a prezzi ben più bassi rispetto a quelli di mercato, cfr. Bignamini 1996, p. 335; per l’editto di Pio VII, Emiliani 1996, p. 88.
21 Sulla prassi del restauro e dei pesanti ‘risarcimenti’ a cui erano soggette le sculture v. Pietrangeli 1985, pp. 101-102; Gallo 1991; Piva 2007.
22 Collocazioni attuali: statua di Tiberio seduta (postuma, di età claudia): Galleria Chiaramonti XXI. 3, inv. 1511 (Chiaramonti 1995, 1, taf. 160-164; 3, p. 19*); busto di Claudio pertinente a statua seduta: Braccio Nuovo 18, inv. 2287 (Amelung 1903, I, 1, pp. 31-32, n. 18, taf. III); parte inferiore di statua seduta: Cortile Ottagono, Portico sud 29, inv. 1050 (Cortile Ottagono 1998, taf. 160-161, p. 14*, con attribuzione ad Augusto). Per tutte vedi ora le schede di P. Liverani, con vicende museografiche e bibliografia aggiornata, in Cancellieri, Laurenzi c.s.
23 Guattani 1805, pp. 72-80, tav. XV (Tiberio); pp. 80-84, tav. XVI (Claudio, riconosciuto come frammento di una statua seduta la cui parte inferiore era identificata nel frammento di ‘altra statua di imperatore’); vedi anche Guattani 1819, pp. 76-77, tav. XIV; Guattani 1839, pp. 303, 309. Un profilo di G.A. Guattani (1748-1830), figura poliedrica di erudito-antiquario, in Racioppi 2003.
24 Cancellieri 2008, p. 33.
25 Schede analitiche di queste sculture in Cancellieri, Laurenzi c.s., nn. II.12; III.5-6 (E. Laurenzi).
26 Liverani 2010.
27 Esauriente sintesi sugli scavi del ‘700, da cui sono tratte le notizie che seguono, in Bignamini 1999. Per tutti gli aspetti tecnici legati alle concessioni di scavo, esportazioni e ai rapporti con la Camera Apostolica v. Bignamini, Hornsby 2010, I, pp. 17-30.
28 Bignamini 1999, p. 18.
29 Fea 1802, p. 7.
30 Ibid.
31 Ibid.
32 Paschetto 1912, pp. 506-507 e ss.
33 Visconti, Guattani 1820, I, p. 215 (testo di A. Visconti).
34 Particolarmente significativo l’editto del 5 gennaio 1750 sulla Proibizione della estrazione delle Statue di Marmo, o Metallo, Pitture, Antichità, e simili (Emiliani 1996, pp. 76-84, n. 9) che ratifica tutta la precedente legislazione in materia.
35 Sull’effettiva efficacia degli editti e bandi pontifici si vedano le considerazioni di Curzi 2009a; Curzi 2009b.
36 Pietrangeli 1958, p. 5.
37 Pietrangeli 1958, p. 4.
38 Pietrangeli 1985, p. 103.
39 Cfr. Pietrangeli 1983; per lo scavo di Cisterna (scavo Hamilton, 1773): Bignamini, Hornsby 2010, I, pp. 67-68.
40 Un denso quadro di sintesi sulla bonifica settecentesca di papa Braschi in Sterpos 1966, pp. 198-248; Giacomelli 1995, pp. 139-241 e Folchi 2002.
41 Rocci 1995b, spec. pp. 21-22; Giacomelli 995, pp. 143, 148; Coarelli 1995, pp. 359-360.
42 Rappini 1777, p. 529.
43 Nicolaj 1800, p. 363.
44 Nicolaj 1800, p. 364. Per la storia della riscoperta della via Appia ancora fondamentale Sterpos 1966, pp. 206-246; per una sintesi Margiotta 1995.
45 Le scoperte archeologiche nella Palude sono ora ampiamente documentate in Folchi 2002, pp. 210-214, ma si veda anche Sterpos 1966, pp. 217-218. Rocci 1995b, Coarelli 1995, Pietrangeli 1995.
46 Cit. in Sterpos 1966, pp. 217-218.
47 Un panorama sulla storia degli studi che hanno interessato la pianura Pontina in Bruckner 1995, pp. 189-191.
48 Emanato dal cardinale G. Pallotta, Delegato Apostolico per la Bonificazione Pontina, il 13 dicembre 1779; il testo in Nicolaj 1800, pp. 244-245.
49 Cfr. Rocci 1995b, p. 185 e Folchi 2002, p. 210.
50 Su cui Pietrangeli 1995.
51 Folchi 2002, pp. 211-212.
52 Cfr. Folchi 2002, p. 213.
53 Per un assetto del territorio pontino meridionale in età romana v. Cancellieri 1987, Cancellieri 1990.
54 Nicolaj 1800, pp. 265-266.
55 Utile panoramica sull’itinerario Roma-Napoli nel corso del tempo in Finodi s.d., pp. 5-9.
56 Sull’argomento vedi, in questo volume, i saggi di I. Romano e D. Salvi.
57 Goethe 1993, pp. 199-201.
58 Hoare 1819, pp. 96-100 (Appia pontina).
59 Labruzzi 1789, cfr. Ashby 1903, pp. 405-406. Una sintesi sul viaggio dello Hoare e le vicende dei disegni del Labruzzi, dei quali manca ancora un’edizione completa, in Massafra 2003.
60 Su cui si veda, in questo volume, il saggio di F. M. Cifarelli.
61 Da notare che in Valle 1646, pp. 17-18 è ricordato un don Bartolomeo Cassandri di Roccasecca «persona attempata, sacerdote di molta bontà» come prezioso conoscitore e informatore di antichità.
62 Cfr. Ciceroni 2011, p. 388.
63 CIL X, 6437: una base con dedica a Settimio Severo posta dai Privernates nel 196 d.C.
64 CIL X, 6325, su cui Cancellieri 1987, pp. 71-72, n. 38; Longo 1992, pp. 256-257.
65 Su questo personaggio Sargenti 1878, pp. 331-335 (= Barsi 2011, pp. 240-242); Barsi 2003, pp. 29-40.
66 Cfr. Folchi 2002, p. 85.
67 Come chiarito da Sargenti 1878, p. 332 (= Barsi 2011, p. 240).
68 La Lettera apologetica è rimasta, infatti, ignorata nei grandi manuali bibliografici sette-ottocenteschi (Ranghiaschi 1792, Lichenthal 1834) e nelle principali opere storico-archeologiche su Privernum. A conferma della sua limitata diffusione, oggi si può segnalare un raro esemplare alla Biblioteca comunale Giosuè Carducci di Città di Castello (Pg.), cfr. Barsi 2011, p. 23, nota 6.
69 Amati 1828. La silloge, che contempla in tutto cinque testi (= CIL X, 6435, 6454, 6449, 6459, 6457), è da integrare, per maggiori e utili dettagli, con la lettura dei suoi taccuini, oggi alla Biblioteca Apostolica Vaticana: Codices, p. 75, nn. 46-50; p. 110, n. 252- 257. 70 Fonti manoscritte ricordano che P. Zaccaleoni nel 1780 trovò a Privernum un «volto del Redentore e altre iscrizioni con cui ornò i muri della sua dimora»: Angelini s.d. [1984], pp. 9-10; Barsi 2003, p. 30.
71 La famiglia Zaccaleoni dal XVI sec. si era divisa in tre rami (Barsi 2003, pp. 35-36); apparteneva al principale l’avv. Agostino, figlio del ben noto Federico, giurista e politico di chiara fama (rivestì importanti cariche sotto la Repubblica Romana) cfr. Berti 1982, Floridi 1985, BARSI 2003, p. 51. Sull’avv. Agostino (1797-1880) Sargenti 1878, pp. 421-428 (= Barsi 2011, pp. 280-283).
72 Amati 1828, pp. 243-250; Marocco 1830, pp. 25-27.
73 Amati 1828, p. 217.
74 Su questo ecclesiastico, che sarà nominato cardinale da Pio VII, vedi Moroni, 1852, pp. 226-229.
75 Cfr. Rusconi 1796.
76 Il Rusconi donò la sua raccolta nel 1812 per la costituenda Galleria Lapidaria dei Vaticani: Pietrangeli 1985, p. 106.
77 Le iscrizioni, entrambe funerarie sono la CIL X, 6451 (pagana, ora infissa sulla facciata della chiesa) e la CIL X, 6460; quest’ultima, cristiana, fu edita, contemporaneamente al Corpus ma con diversa proposta di lettura, da De Rossi 1878. Ulteriori precisazioni di lettura in ILCV 2160; sul testo ora Bucarelli 2009, pp. 231-240 con bibliografia. L’iscrizione è oggi al Museo Medievale di Fossanova, inv. 464/30088 e una sua nuova riedizione è in corso in un volume dei Supplementa Italica dedicato a Privernum, curato da S. Evangelisti.
78 Per una lettura storico-critica dell’Editto Pacca Curzi 2001, Curzi 2009a.
79 Emiliani 1996, p. 111.
80 Corbo 1982; Nuzzo 2010.
81 Documentazione sullo ‘scavo’ del De Bonis in Ciceroni 2011, pp. 383-386. Per un esame critico di tutto il corposo carteggio conservato negli Archivi di Stato di Roma e Frosinone si rimanda a Cancellieri, Laurenzi c.s. («I. Ritratti dalla chiesa di Santa Maria Assunta. La provenienza»: M. Cancellieri). Notizie dei rinvenimenti furono tempestivamente rese note in diverse annate del Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica: 1830, p. 247; 1832, p. 4; 1834, p. 227.
82 Cfr. Bernoulli 1891, II. 2, p. 5.
83 Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano ex Lateranense, inv. 10210. Il busto, inizialmente, veniva attribuito a L. Iulius Ursus Servianus, cfr. Giuliano 1957, p. 49, n. 53, tavv. 36-37. Un calco è esposto al Museo Archeologico di Priverno, inv 1193.
84 Si veda Calza 1961, pp. 70-71, n. 113, tav. LXVI; bibliografia completa in Cancellieri, Laurenzi c.s. («I. 16. Busto di L. Iulius Ursus»: P. Liverani)
85 Per tutta la documentazione, per lo più inedita, relativa alla scoperta, alle vicende museali e alla recente identificazione del pezzo si rimanda a Cancellieri, Laurenzi c.s. («I. Ritratti dalla chiesa di Santa Maria Assunta», schede di M. Cancellieri e P. Liverani).
86 Musei Capitolini, Stanza degli Imperatori 5, inv. 415, su cui Fittschen, Zanker 1985, pp. 29-31, n. 23, tav. 25, con bibliografia aggiornata ma contenente inesattezze nei dati di scavo.
87 Musei Capitolini, Palazzo Nuovo, inv. 532 (già Stanza dei Filosofi 28), su cui, da ultimo, Parisi Presicce 2010.
88 La Rocca 1990, p. 428, fig. 210.
89 Parisi Presicce 2010 con fig. a p. 181, ivi anche per completo apparato bibliografico. Questa attribuzione getta non poca luce sulla consistenza architettonica e cultuale di Privernum e sulla cultura ellenistica, già per altri versi segnalata, che permea la sua ricostruzione coloniale fra le età dei Gracchi e Silla; cfr., soprattutto in merito all’architettura privata, Cancellieri 2010.
90 Per le quali si veda almeno Archivio Stato Roma, Camerlengato II, tit. IV, b. 156, f. 234, prot. 16350.
91 Fu, fra l’altro, Commissario alle antichità dello Stato Pontificio, docente all’Università di Roma e presso l’Académie de France e direttore, per un quindicennio (1855-1870), degli scavi di Ostia: Pacchiani 1999.
92 Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Ferrajoli, 971, ff. 92-93; Archivio Stato Roma, Camerlengato II, tit. IV, b. 205, f. 1242, prott. 2362, 5826.
93 Armstrong 1911, p. 182, nota 40.
94 Rossini 1821, tav. XXXVI: Veduta di Cisterna presa sotto al portico della Posta.
95 Guattani 1805, p. 73.
96 Il disegno, inedito, è al Soane’s Museum di Londra: Dodwell’s/Drawings, vol. 2, n. 18.
97 Per la vita e le opere di E. Dodwell si vedano, in questo volume, le schede di C. Ciccozzi con bibliografia.
98 Di cui lo stesso Dodwell dà notizia in AnnInst 1831, p. 414.
99 Sull’argomento si veda, in questo volume, l’ampia trattazione di F.M. Cifarelli.
100 Sull’arco Armstrong 1911, p. 174 e fig. 2; la teoria dello studioso che riconosceva nell’arco un limite della città non è da condividere.
101 Valle 1634, p. 51 e p. 45 per le porte. Rapportata alla topografia moderna, questa superficie si sviluppa su due assi rispettivamente di km 2,5 e 2 e si estende dal colle S. Pietro (fig. 9, n. 4) (per il Valle 1634, p. 51, sede del ‘Palazzo Regale’) fino alle sponde dell’Amaseno (cfr. Valle 1634, p. 49) e quindi al monte Alcide (fig. 9, n. 11) da identificare forse con il ‘Monticello’ del Valle 1634, p. 51.
102 La Pianta è conservata in una collezione privata, è senza data e non ho trovato notizie sull’autore.
103 Un esauriente profilo biografico sul personaggio è ora delineato da Iannicola 2011, spec. pp. 400-408 e si veda anche Angelini 2005, pp. 204-210.
104 La data si ricava da un certificato di ‘ben servito’, rilasciato dall’Ufficio Scavi di Roma in data 23 maggio 1911 in cui si dice che «la S.V. occupa tale carica (di Ispettore dei Monumenti e degli Scavi) da diciannove anni e questa Direzione è stata sempre lieta di proporre al Ministero la conferma della nomina ogni volta che per legge il mandato della S.V. veniva a scadere»: Archivio Soprintendenza Lazio, Piperno, pos. E-33, 23 maggio 1911. Sulle competenze e ruolo degli ispettori onorari un utile quadro di sintesi in Ceccarini 2001, pp. 12-17.
105 Cfr. Iannicola 2011, pp. 400-405.
106 Sul Sargenti e la sua opera (rimasta manoscritta) esaustivo Barsi 2011.
107 Cfr. Bucarelli 2009, pp. 233-234 con nota 29; Barsi 2011, pp. 21-22.
108 Fiorelli 1875, p. 5.
109 Materiale conservato in Archivio Centrale Stato, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II vers., b. 292 ed anche nell’Archivio Storico della Soprintendenza per i Beni Archeologici per il Lazio, Piperno, passim. Alcune notizie di rinvenimenti effettuati da Jannicola, relativi al territorio, sono in NSc, 1904, p. 53; 1910, p. 293; 1913, p. 308.
110 Archivio Centrale Stato, loc. cit., prot. 2813.
111 Iannicola collaborò attivamente con gli studiosi che in quegli anni si interessarono delle antichità di Priverno: G.B. Giovenale con L. Mariani e H.H. Armstrong, cfr. Iannicola 2011, p. 406.
112 La Pianta è ora edita in Iannicola 2011, p. 406, tav. 3 a p. 415, ma con errata datazione al 1895 (datazione già proposta in Armstrong 1911, p. 186). La data del 1901 si evince chiaramente dai documenti conservati nell’Archivio Storico della Soprintendenza per i Beni Archeologici per il Lazio.
113 Giovenale, Mariani 1899, p. 88.
114 Marocco 1830, pp. 13-14: «Al presente, lontano alla Città miglia quattro circa, venendo da Sezze, in un piano vocabolo la Ceriara si veggono vari ruderi di mura fatte di grossissime pietre, e vuolsi che formassero un tempio sacro a Cerere, dalla quale divinità opinano quasi tutti gli Antiquari che ne sia provenuto per corruzione di lingua il vocabolo, che presentemente codesto luogo ritiene».
115 Il padre domenicano P.P. Mackey, figura poliedrica di filosofo, storico, archeologo, viaggiatore e fotografo di notevole capacità, dedicò la sua vita alla cura dell’edizione completa delle opere di san Tommaso d’Aquino. Compì lunghi viaggi in Italia e in Grecia testimoniati da una collezione di oltre 2000 fotografie scattate fra il 1894 e il 1910, oggi conservate negli Archivi della British School at Rome: Crawford 2000; Coates-Stephens 2009. Sulle orme di san Tommaso, padre Mackey visitò (e fotografò) Fossanova nel 1897 e probabilmente fu in quell’occasione che conobbe alcune rovine del privernate.
116 Giovenale, Mariani 1899, p. 88
117 Nizzo 2009; Nizzo 2010.
118 Fra i numerosi scritti degli studiosi dedicati all’argomento e in cui è apertamente dichiarata la loro posizione culturale, si veda almeno Mariani 1985, Mariani 1986; Giovenale 1900. Per un loro profilo biografico Catini 2001 (G.B. Giovenale) e Mazzocco 2007 (L. Mariani).
119 Sul padre De Cara, le sue opere e il suo ruolo, non certo secondario, svolto nell’ambito della ripresa della ‘questione pelasgica’ (fu fra i primi e più tenaci sostenitori della necessità di avviare attività di scavo) si rimanda a Nizzo 2009, spec. pp. 16-19 e Nizzo 2010, pp. 174, 182187, scritti fondamentali anche per il rilievo che in essi viene dato alla figura di L. Mariani, ai suoi studi (con pubblicazione di scritti inediti: Nizzo 2010, pp. 191-193) e alle sue aspettative in seno alle ricerche sulle città italiche.
120 Giovenale, Mariani 1899 ed anche Giovenale 1900, pp. 337-338.
121 Soprattutto iscrizioni ma anche un prezioso frammento di naos egizio e un kouros arcaico: Giovenale, Mariani 1899, pp. 97-99; 101. 122 La documentazione che accompagna la pubblicazione di Giovenale e Mariani può essere integrata con materiale inedito (foto e disegni, cfr. fig. 12) conservato all’Archivio Centrale di Stato (loc. cit. alla nota 109).
123 Giovenale, Mariani 1899, p. 95 con nota 1.
124 Sull’argomento esaustivo Nizzo 2010, pp. 180-182 e passim.
125 Per un completo quadro storiografico e archeologico sulle rovine di Ceriara, si rimanda a Cancellieri, Laurenzi c.s. («I. Galleria di famiglia da una villa rustica in loc. Ceriara. Il contesto di provenienza»: M. Cancellieri).

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Rossini 1839 = L. Rossini, Viaggio pittoresco da Roma a Napoli colle principali vedute di ambedue le città, delle campagne e dei paesi frapposti, Roma 1839.
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Sargenti 1878 = De’ Volsci e Pipernesi illustri. 1878. Michele can.co Sargenti al concittadino e amico d’infanzia monsignor Paolo Alessandro Spoglia vescovo di Comacchio, ms. conservato nell’archivio della Famiglia Tacconi di Priverno; prima edizione a stampa in Barsi 2011.
Sterpos 1966 = D. Sterpos, Comunicazioni stradali attraverso i tempi, Roma-Capua, Roma 1966.
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Valle 1637 = La Regia, et Antica Piperno città nobilissima di Volsci nel Latio […], cavata dalli manoscritti del padre lettore f. Teodoro Valle da Piperno domenicano, et posta in luce da […] Pietro Paolo Benvenuti privernate, in Napoli 1637.
Visconti, Guattani 1820 = F.A. Visconti, G.A. Guattani, Il Museo Chiaramonti descritto e illustrato da Filippo Aurelio Visconti e Giuseppe Antonio Guattani, Milano 1820.